E’ stato registrato alla Corte dei Conti il DPCM di “Definizione delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale”; in altre parole il provvedimento con cui il Governo dispone unilateralmente l’equiparazione tra i diversi livelli di inquadramento dei lavoratori dei comparti pubblici, allo scopo di avviare processi di mobilità da un comparto all’altro della Pubblica amministrazione, nell’ottica di una presunta razionalizzazione degli apparati.
I trasferimenti potrebbero implicare uno spostamento fino a 50 chilometri dei lavoratori coinvolti nelle procedure di mobilità, ma- assicura il provvedimento- dovranno avvenire “senza pregiudicare, rispetto al requisitodel titolo di studio, le progressioni di carriera acquisite”.
Invece non è così, e con il DPCM si mette mano ai processi di mobilità senza aver valutato approfonditamente le molteplici implicazioni giuridiche ed economiche che il passaggio lavorativo da un ministero a un ospedale,da una provincia a un ente di ricerca, da una scuola a un Comune comporta, in primis professionalità, riqualificazione e formazione che sono aspetti fondamentali per affrontare con successo i percorsi di cambiamento.
Nelle tabelle è del tutto evidente la scelta del Governo di ignorare le garanzie contrattuali attualmente esistenti sia per quanto riguarda gli ordinamenti professionali che per le carriere.
Dalle tabelle non si evince, per esempio, alcuna possibile mobilità dei lavoratori della Croce Rossa verso il SSN ed è evidente che lacollocazione in profili amministrativi anche di medici e operatori sanitari ne snaturerebbe completamente la vocazione e la professionalità acquisita negli anni.
Per quanto riguarda il comparto scuola il DPCM e leannesse tabelle non precisano che si tratta di mobilità “in uscita”, verso altre amministrazioni, e non certo di mobilità “in entrata”. Le norme vigenti sul reclutamento di docenti, personale educativo, personale Ata prevedono il possesso di requisiti specifici, titoli di studio, piani di studio, abilitazioni professionali molto precise per funzioni finalizzate all’erogazione del servizio scolastico sancito dalla Costituzione come diritto fondamentale della persona. Queste norme sono richiamate sono in modo generico all’art. 2 comma 1nel Dpcm.
Sempre dalla tabella 9 tutti i docenti della scuola primaria e dell’infanzia sono inquadrati in Area II, anche se laureati. Questo non è accettabile, considerato che il profilo docente è un profilo unico e da oltre 15 anni per accedere all’insegnamento nella scuola primaria e dell’infanzia è obbligatorio il possessodella Laurea. Questa discriminazione tra laureati della scuola secondaria e laureati della scuola del primo ciclo non ha più ragione di esistere neanche sotto il profilo legislativo.
Nel comparto università in particolare per gli EP (Elevate Professionalità), che hanno come requisito di accesso la laurea + la specializzazione o abilitazione professionale (avvocati, architetti ecc.) ed hanno mansioni assolutamente paragonabili ad esempio ai tecnologi degli Enti Pubblici di Ricerca, la proposta di inquadramento in caso di mobilità è estremamente penalizzante. Guardando agli altri comparti del Pubblico Impiego si nota come nessuno possa essere inquadrato in EP ma come viceversa gli EP dell’ Università possono essere inquadrati in tutti i comparti.
L’unico criterio seguito per la redazione delle tabelle di equiparazione realizza un sistema di inquadramenti terribilmente penalizzante per i lavoratori e discriminante, basato esclusivamente sulla retribuzione tabellare;un criterio “al ribasso” che stabilisce un principio di risparmio laddove sancisce la riassorbibilità dell’assegno ad personam per gli aumenti di salario a qualsiasi titolo conseguiti successivamente e che lede i diritti contrattuali acquisiti dai lavoratori, sia nell’inquadramento iniziale, sia nella progressione di carriera legata all’anzianità. La generalizzazione degli assegni riassorbibili nasconde un blocco contrattuale economico pluriennale.
Nell’Afam il criterio dell’equiparazione legata esclusivamente ad aspetti economici produce un vulnus irreversibile pretendendo di comparare musicisti scultori, registi ecc…ai lavoratori con profilo amministrativo. Il vulnus aumenta laddove si propone la separazione tra docenti di I E II fascia in base al titolo di studio. Si tratta di una discriminazione totalmente priva di fondamento e lesiva sia dei diritti soggettivi dei singoli lavoratori.
Nella premessa al DPCM si afferma che le posizioni stipendiali del personale della scuola e dell’AFAM sono “definite per fasce di anzianità”, quindi non si indicano quadri di corrispondenza. Però alla tabella 9, poi, non ci limita ad indicare solo l’Area di corrispondenza del comparto ministeri (ovvero l’Area III, l’Area II o l’Area I) ma, illegittimamente, si fa riferimento alla posizione stipendiale che, per tutti, è solo quella iniziale (ovvero la F1 o F2 rispettivamente).
Per gli enti pubblici di ricerca l’equiparazione del collaboratore tecnico degli enti di ricerca appare impropria dal punto di vista imprescindibile del profilo professionale. La diminuzione retributiva prospettata è di tale impatto che per un Cter V o IV livello in caso di passaggio ad altro comparto conserverebbe un maturato economico talmente corposo, da impedire qualunque ulteriore incremento per il futuro di natura contrattuale. Del resto le ragioni che escludono i ricercatori e tecnologi per la loro specificità sono in buona misura le stesse che giustificherebbero l’esclusione del personale tecnico, le cui peculiarità professionali sono evidentemente ignorate dalla logica che ha costruito le equiparazioni proposte.
All’incontro con il Ministro Madia la Cgil aveva chiesto che fosse esplicitamente previsto l’esame congiunto con le OO.SS. di tutti gli atti di inquadramento adottati dalle amministrazioni in seguito al DPCM tabelle di equiparazione, ma il testo del decreto dimostra tutta la mancanza di volontà degli interlocutori governativi ad aprirsi a ragionamenti di merito che possano dare risposte concrete alle necessità e alle istanze dei lavoratori soggetti a mobilità ed è per queste ragioni che la Cgil ha dato mandato ai propri legali di procedere all’istruttoria per l’apertura di un possibile contenzioso sul provvedimento.
Con la stessa visione limitata e gli stessi criteri“al ribasso” è stato varato il DM per la mobilità dei lavoratori delle Province, del personale di polizia provinciale e del personale della CRI, in attesa di visto dalla Cortedei Conti.
In seguito al riordino previsto dalla Legge Del Rioi dipendenti in soprannumero che dovranno trovare una collocazione presso le Regioni, i Comuni, il Servizio Sanitario Nazionale o anche il Ministero della Giustizia e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti manterranno il trattamento economico fondamentale eaccessorio “limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa”.
Il provvedimento contraddice la ratio della riforma Del Rio in quanto viene data priorità alle esigenze di riduzione degli organici degli enti provinciali e delle città metropolitane, piuttosto che alle esigenze di continuità dei servizi che possono essere mantenuti solo se si tiene in considerazione la professionalità del personale interessato.
Inoltre, rimane poco chiara la parte in cui si parla dell’inquadramento dei dipendenti provinciali trasferiti in mobilità per i quali non sembrerebbe scontato il mantenimento della retribuzione all’atto del trasferimento.
Questa agghiacciante confusione normativa e mancanza di garanzie è frutto di tutte le misure riduttive sulle risorse delle Province e,in particolare, del comma 418 della legge di stabilità per il 2015 (L. 190/2014) che prevedeuna riduzione della spesa corrente per le Province pari a 1 miliardo (1.180 milioni) di euro per il 2015, 2 miliardi per il 2016 e 3 miliardi per il 2017. E’ evidente che con un taglio delle risorse simile il Governo abbia dovuto derogare al principio della legge Del Rio e stabilire che i trasferimenti di personale non comportano trasferimento di risorse finanziarie.
Per i dipendenti della CRI, poi, il DM prevede la mobilità unicamente verso le funzioni centrali, escludendo in maniera esplicita la possibilità di trasferimento sia verso il SSN che verso le Regioni, con la conseguente forte perdita di professionalità di questi lavoratori e la grande penalizzazione che ne subisce il servizio pubblico in termini di qualità. I dipendenti della CRI sono esplicitamenteesclusi dal contingente di 2000 unità in mobilità verso il Ministero della Giustizia ex L.132/2015 e, con un’evidente disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri lavoratori, è sancita solo per loro la non applicazione del meccanismo dell’assegno ad personam anche nel caso di mobilità obbligatoria.
La proposta avanzata dalla Cgil va nella direzione esattamente contraria a quella voluta dal Governo, frutto di politiche miopi e discriminatorie e di continui tagli agli enti locali, e prevede l’estensione a tutta la mobilità obbligatoria delle norme del comma 96 della Legge 56/2014 in modo da congelare i trattamenti economici in essere, senza oneri per la finanza pubblica.